top of page

DIRITTI

Penso che potrei passarci sopra con l’indifferenza dei tanti che fingono di non sentire e invece è una causa che credo appartenga a ognuno di noi. Penso che la libertà di pensiero sia un diritto da difendere con le unghie e con i denti, ma che la libertà possa dirsi tale solo se condivisa ed estesa a tutti. Penso che nascondere offese e insulti dietro rivendicazioni di libertà di espressione e credo religioso sia codardia, la verità è che la libertà diventa sopruso se va a ledere i diritti altrui. Penso che non si tratti di una mera battaglia mediatica, ma della volontà di voler scardinare false credenze e ottusità mentale. “Cultura” è un termine ricco di sfaccettature, nessuna delle quali, però, prescrive di depennare le differenze in fatto di orientamento sessuale, di genere, di credo religioso, di etnia, di ceto ecc. in nome di un’esattezza presunta, ma che non esiste. Fare cultura significa fare delle differenze una ricchezza, non un capro espiatorio o un oggetto d’insulto. Divulgare falsità e ideologie improprie, infondate è sinonimo di voler schiacciare le libertà individuali sotto il giogo della disinformazione. Io dico NO agli abusi, perché anche questi lo sono, io dico NO a ogni forma di discriminazione, ognuno di voi può farlo. 

 â€‹CONTROSOLIDARIETA'

 

Stanno circolando le immagini dei migranti a Belgrado e ci sono ancora persone ostinate a reclamare il diritto ad essere ascoltate per i propri problemi, convinte che ognuno ne abbia, ogni Paese abbia le proprie criticità da risolvere e non abbia tempo per occuparsi anche di “intrusi”. Che tristezza.

I trattati a salvaguardia dei diritti dell’uomo non vengono sottoscritti per la bellezza di apporre la propria firma in calce, ma per essere applicati, sempre. Il diritto alla vita, alla libertà, alla tutela della persona e a tutte le forme d’espressione non sono diritti elitari, non vanno garantiti ai connazionali, ma agli uomini. La dignità umana è pari a tutte le latitudini, il nostro obiettivo dovrebbe essere far passare questo messaggio invece di volere preferenze, discorsi simili qualcuno li faceva in nome di una “razza” prescelta, non scordiamolo.

Non si chiama guerra fra poveri, io la chiamo “controsolidarietà”, il desiderio di prevalere sull’altro che già si trova in situazioni di miseria estrema. Si chiama etnocentrismo, per cui si guarda tutto dalla propria prospettiva, per la quale ci si trova al centro e si sente di meritare più degli altri. Si chiama indifferenza per i diritti di persone che sono trattate alla stregua di animali abbandonati al loro destino, perché in fondo “se lo sono scelti”.

Queste persone non si sono scelte di ritrovarsi in una zona dismessa dietro la stazione di Belgrado a morire di fame e freddo, non si sono scelte di nascere in zone in cui persino i bambini non sanno se poter credere in un domani o meno, non si sono scelte di dover abbandonare tutto e rischiare la vita. Sono state obbligate a farlo, la vita era già stata tolta a loro e questo è stato l’estremo tentativo per andare a riprendersela. Chi non lotterebbe per la propria vita e quella dei propri cari? Chi si merita di ritrovarsi in condizioni che ci saremmo augurati di dover rivedere solo all’interno dei libri di storia?

Lo scandalo di Belgrado, perché di scandalo si tratta, non sarà il solo a distanza di spazio e tempo, ma è quello che in questi giorni deve generare indignazione in ognuno, se così non fosse significherebbe che nel 2017 gli umani hanno definitivamente cessato d’esistere per lasciare il posto ai disumani.

Ognuno dovrebbe sentirsi partecipe delle sofferenze altrui, questo non significa sminuire le proprie, significa non essere impermeabili. Tutti dovrebbero mobilitarsi iniziando a combattere il silenzio con parole pensate e non illazioni irragionevoli e pretestuose.
​
Ricordiamoci che i confini sono solo nelle nostre menti, che la colpevolezza delle sorti di queste persone risiede solo nelle nostre mani ferme, nelle nostre bocche zitte o sbraitanti, nella nostra volontà paralizzata.


 

zzz.jpg
zzx.jpg

DIRITTIFOBIA



Le ricorrenze non servono per parlare di un determinato argomento nelle ventiquattr'ore per poi gettarlo nel dimenticatoio per tutto il resto dell’anno, ma sono come degli STOP nel frenetico fluire della vita in cui è doveroso fermarsi e dare precedenza a delle considerazioni sulla situazione odierna dei fatti. A ogni ricorrenza viene attribuito un giorno, di certo non in modo casuale, bensì proprio a ricordo di determinati eventi, spesso come monito affinché non si ripetano più. La Giornata Internazionale della Donna è stata istituita agli inizi del Novecento, spesso se ne ricordano gli antecedenti, altrettanto spesso si prende l’8 marzo come un punto di arrivo, la realizzazione dell’obiettivo di veder riconosciuto il ruolo della donna nella società. Da un altro punto di vista, però, quello non è stato altro che un punto di svolta, un nuovo inizio, non un fine raggiunto. Fino a 70 fa, infatti, in Italia la donna non è che si trovasse in condizioni di gran lunga migliori rispetto a quelle che ancora vive in alcune zone del mondo nel 2016 e che per chissà quanto continuerà a dover sopportare in futuro. È fondamentale in una ricorrenza come questa ripercorrere le tappe principali della progressiva acquisizione di diritti da parte delle donne italiane che per ottenerli si sono dovute battere in nome di una parità di genere che non si è ancora del tutto raggiunta.

Quello che molti oggi avvertono erroneamente come un dovere, ossia il voto, è stato un diritto per cui si sono battuti sia uomini che donne, perché inizialmente, come nella maggior parte degli altri Paesi era un diritto elitario, un privilegio riservato ad una cerchia ristretta della società. Se, però, già dal 1912 il suffragio universale maschile riconosceva come elettorato attivo gli uomini sopra i 21 anni (30 anni se analfabeti), lo stesso diritto le donne l’ottennero solo nel 1945 e nello stesso anno un decreto consentì loro anche l’accesso all’elettorato passivo, la possibilità di candidarsi per le elezioni ed essere votate. Il 2 giugno 1946 le donne parteciparono per la prima volta al voto, per il Referendum istituzionale che chiedeva ai cittadini di scegliere per Monarchia o Repubblica.

Basti pensare che il diritto di famiglia del 1942 prevedeva che la moglie fosse subordinata al marito, il quale aveva la potestà dei figli e la proprietà esclusiva del patrimonio. I coniugi, infatti, diventano uguali davanti alla legge italiana all’alba del 1975, anno in cui si istituiscono la comunione dei beni, la parità tra i figli “legittimi” e “illegittimi” e il riconoscimento del tradimento da parte del marito come causa legittima di separazione.

Prima della legge 194 le donne che si sottoponevano ad aborto volontario, così come coloro che consentivano l’effettiva interruzione di gravidanza erano punibili con la reclusione; dopo il 1978 è stato concesso di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza nel caso di motivi personali o di salute della madre e/o del nascituro, ma anche in considerazione delle circostanze del concepimento, contemplando ad esempio il caso in cui questo fosse avvenuto a causa di uno stupro.

Sul luogo di lavoro la tutela delle donne è stata riconosciuta solo a partire dal 1963. Prima potevano essere licenziate nel momento in cui si sposavano o restavano incinte, come se volersi costruire una vita fosse fuori legge per le donne, come se avere una famiglia e volerla mantenere con un lavoro non andassero di pari passo perché era l’uomo ad essere l’addetto al mantenimento della famiglia. Molti ancor oggi la pensano così, ma quantomeno per legge la donna oggi ha diritto a un periodo di congedo e, nel caso di un licenziamento, a un reintegro obbligatorio. Ovviamente le leggi sono fatte tanto per essere rispettate quanto per essere evase da coloro i quali si credono più furbi e così, di pari passo con questa legge, è nata la pratica illegale delle “dimissioni in bianco” firmate al momento dell’assunzione affinché il datore possa ricorrervi qualora la lavoratrice avrebbe diritto a un congedo. Sempre solo nel 1963 viene consentito alle donne l’accesso alla Magistratura, mentre bisognerà attendere il 1981 per la partecipazione su base paritaria alle Forze di Polizia e il 1999 per quella alle Forze Armate a pari titolo con gli uomini. Solo qualche anno fa si è incominciato a incentivare il reintegro della donna nel mondo del lavoro dopo la maternità e l’imprenditoria femminile, a sanzionare le molestie a sfondo sessuale e la disparità sul luogo di lavoro.  La legge del Golfo- Mosca del 2011 stabilisce che i Consigli di Amministrazione delle aziende quotate in Borsa abbiano almeno un quinto di componenti donne e la quota rosa sale a un terzo del totale solo a partire dal 2015. Ricordiamo inoltre che si è dovuto aspettare il 2013 perché stalking e maltrattamenti fossero puniti con l’arresto obbligatorio, mentre prima di quella data una lunga fila di casi e denunce si erano accumulati senza che giustizia venisse fatta. Prima del 2009 lo stalking non era nemmeno riconosciuto come reato.

Insomma c’è ancora molto per cui battersi e nella Giornata della Donna sarebbe auspicabile che dietro alla mimosa e agli auguri non ci fosse una semplice conformità agli usi che da 70 anni a questa parte (secondo la tradizione italiana la mimosa sarebbe diventata la “pianta delle donne” nel 1946, quando l’UDI, cioè l’Unione Donne Italiane, lo scelse come fiore che potesse essere regalato al sesso femminile in occasione della prima Festa delle donne del dopoguerra) accompagnano la ricorrenza. Dietro ai gesti bisognerebbe cogliere i significati, farli per inerzia equivale a non farli, almeno nella mia ottica. Ecco perché, in questa giornata come in tutti gli altri giorni, le donne andrebbero guardate con lo sguardo di chi vede in loro un potenziale non ancora espresso alla massima potenza e che pertanto andrebbe incentivato, lo sguardo di chi si batte per la parità di diritti, di chi capisce che “sesso debole” è una definizione coniata da chi quel potenziale lo teme.

Se guardo indietro vedo grandi passi fatti in un lasso di tempo relativamente breve, gli ultimi cinquant’anni, ma prima di riuscire a rivolgersi speranzoso verso il futuro, il mio sguardo si sofferma sul presente. Vedo violenza fisica e verbale che spopola ovunque, vedo che si preferisce sparare a zero su tutto e tutti a priori perché informarsi costa fatica, vedo xenofobia, omofobia, misoginia e allora mi chiedo se alle persone piaccia progredire nei fatti o solo a parole. Sputare veleno senza cognizione di causa è sintomo di ignoranza, nient’altro.

Ultimamente vedo molte persone che si mobilitano CONTRO i diritti.

La libertà fa paura a chi ha scheletri nell’armadio.

Tutte le persone che lottano per mantenere la disparità, non solo di genere ma di qualsiasi ordine e grado, si palesano per quello che sono: l’apoteosi del paradossale di cui la nostra società è intrisa.

Ciò di cui sono convinta, però, è che ognuno possa fare tanto per combattere queste tendenze, ognuno possa ostacolare queste prevaricazioni in nome del rispetto reciproco e della libertà. Si è liberi davvero quando non si giudicano gli altri, quando non si rivolgono loro delle offese, quando non si intralciano le libertà altrui.

Si è liberi solo quando si riconoscono i diritti di ognuno.

 

 
                                                                                                                                                                           Elisa
 

I DIRITTI NON VANNO IN VACANZA

​

Lo scopo del costume da bagno è quello di proteggere il corpo, per quanto possibile, da sole, acqua, sabbia e sguardi indiscreti. Questo stava alla base dell’indossare un vero e proprio “abito da bagno” a fine ‘800,
mentre dall’inizio degli anni ’20 si è passati a coprire fino al ginocchio e solo in seguito si sono progressivamente scoperte le gambe sino ad arrivare al bikini nel 1946. Al giorno d’oggi penso si vedano in spiaggia costumi di ogni sorta, dall’intero al trikini, dal bikini al topless. Insomma più ci si scopre meglio è e non è progresso, che implica un avanzamento verso un concetto di “giusto” che non esiste, ma semplice cambiamento socio-culturale.


Poi d’un tratto qualcuno decide di coprirsi e molti non si fanno scrupoli prima di mettersi ad additarlo e criticarlo.
Non ha ragione chi si scopre, non ha ragione chi si copre, ha ragione chi si sente in sintonia con sé e gli altri e perché questo accada bisognerebbe preoccuparsi del sorriso delle persone più che dei loro gusti in fatto di moda. L’abitudine non decreta la correttezza di qualcosa, semplicemente ne determina la popolarità. In questo come in altri casi il “non uguale” viene erroneamente etichettato come “sbagliato”. Essere pudici non significa essere retrogradi, avere una concezione diversa della sensualità e della sessualità non significa “essere rimasti indietro”, sia chiaro.

 

Trovo che nel 2016 ognuno debba avere la libertà di indossare gli indumenti che preferisce, a meno che non si tratti di un’imposizione; ritengo che io, il passante di turno e le persone che vivono dell’altra parte del mondo debbano vedersi riconosciuto il sacrosanto diritto di scegliere in tutto, abbigliamento incluso. Sono cosciente del fatto che questo diritto non sia riconosciuto ovunque, purtroppo, ma quello che mi lascia allibita è l’ipocrisia di chi si autodefinisce “di larghe vedute” e in nome di queste condanna il “burkini”.
​
Voler garantire i diritti a tutti significa in primo luogo non limitarne li libertà ma garantirgliene di nuove e soprattutto ricordarsene sempre, non solo quando conviene per alimentare odio e divisioni.

Se qualcosa offende le donne questo è probabilmente il maschilismo di frasi e battute che sembrano prolificare invece che diminuire di giorno in giorno; il fatto che sul luogo di lavoro si pensi di potersi concedere determinate libertà, verbali o gestuali, in presenza di una donna; l’uso dell’immagine delle donne senza veli a fini promozionali; il perpetuarsi di stereotipi sessisti. Giudizi lesivi della libertà di scelta ed espressione sono inaccettabili, lo sono ulteriormente se proferiti dalle labbra di persone in primo luogo irrispettose delle stesse libertà.
Spero che l’argomento tanto discusso di questi giorni non si chiuda insieme agli ombrelloni delle spiagge, ma che possa mettere in dubbio la certezza di chi si crede tanto progressista e al passo coi tempi.

Impariamo a rispettare la donna giorno per giorno e a lasciarle indossare il costume con il quale si sente maggiormente a suo agio e insieme a lei proviamo a rispettare uomini, bambini, anziani, tutti senza distinzioni. Fatto questo forse potremo dire di avere davvero a cuore i diritti, senza se e senza ma.


                                                                                                                                                                          Elisa

abito-da-bagno_orig.jpg
burkini-2.jpg

NESSUNA VITTIMA DI SERIE B


Non ho scritto subito pensando che i fatti si commentassero da soli e infatti ho ritenuto superflui i fiumi di parole di questi giorni, un po’ di silenzio consapevole avrebbe sortito un effetto più costruttivo rispetto alle tante parole dette tanto per farsi sentire, specie da chi ha facilmente strumentalizzato il tutto. Quelli che seguiranno saranno brevi pensieri non sull’accaduto, per i motivi sopra citati, ma su quanto è seguito.

 Saranno riflessioni impopolari le mie, ma non posso fare a meno di constatare che ciò che spiana la strada a terrorismo e non solo è la non conoscenza di come realmente stiano le cose. Niente e nessuno può legittimare attacchi terroristici, morti e distruzioni. Allo stesso modo però nessuno dovrebbe permettere che la maggior parte dei media si mobilitino a dovere solo quando vengono colpiti innocenti a Parigi, senza nemmeno menzionare di striscio i tanti innocenti vittime di simili barbarie in Libano, Siria e nel resto del Medio Oriente nei giorni scorsi. Molti, al contrario, esultano se i raid francesi colpiscono i siriani. Questi, vessati prima dalla situazione locale, si ritrovano colpiti nuovamente da chi dice di volerla abbattere, ma altro non fa che annientare i civili. Il terrorismo non è ben accolto da chi se lo ritrova in casa, un po’ come la mafia in Italia. Noi “occidentali civilizzati” però cosa facciamo? Invece di sostenere i locali nelle rivolte passate o supportarli nel ritrovare la forza di rialzarsi e opporsi in futuro andiamo a colpirli.

Quello di cui ci si dimostra di essere capaci in questi giorni è vendicare la morte di innocenti causando la morte di altri altrettanto indifesi, colpevoli solo di essere nati sulla sponda sbagliata del Mediterraneo. Perché sbagliata? Perché siamo giunti a un punto di non ritorno per cui il diverso fa paura, il diverso è cattivo, il diverso è colpevole. In realtà il diverso è molto più simile a noi di quanto crediamo: subisce il terrorismo come lo subiamo noi, crede in una religione che vede strumentalizzata contro la sua volontà, come in passato è stato strumentalizzato il cristianesimo per muovere guerra ai non credenti o per rivendicare una presunta superiorità su altre fedi.

Insomma la storia si ripete perché siamo noi a volerlo.

Essere dotati di razionalità e non farne uso è vergognoso.
​
Essere in lutto per le vittime a Parigi è più che doveroso, ma lo è anche esserlo per le vittime in Medio Oriente e altrove, perché non ci sono persone che valgono più di altre, né morti che pesano più di altre. 



                                                                                                                                                                           Elisa 

 

bottom of page