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EXPO E IMMIGRATI



La disumanità sta nel ridursi quasi a non sentirsi più uomini perché sporchi, affamati, assetati, feriti, senza casa, senza famiglia, privati della dignità oppure nel rifiutarsi di vedere il bisogno negli occhi di chi è uomo come noi?

CON L'ACQUA ALLA GOLA
 

In questi giorni i riflettori sono doverosamente dirottati sulla vetrina internazionale che ha l’arduo compito di tentare di risollevare l’opinione pubblica estera rispetto all’immagine che l’Italia dà di sé. Incalzanti sono i ritmi con cui si sono portati avanti i lavori negli ultimi mesi, emblema questo di quanto incalzanti siano i ritmi con cui inseguiamo la nostra vita senza riuscire sempre a stare al passo con lei. Ci si riduce sempre all’ultimo, si aspetta che sia troppo tardi per meditare su cosa si sarebbe potuto fare, il senno di poi non desta sensi di colpa ma fa emettere sentenze a non finire. Ci sono questioni che, però, seppur altrettanto incalzanti, si cerca di oscurare dai riflettori, perché si sa, la polvere bisogna nasconderla sotto al tappeto. La frenesia che ci attanaglia non dipende solo dalla combinazione delle tante variabili personali, tanti altri problemi collettivi ci assillano, o quantomeno dovrebbero, semplicemente per il loro essere perennemente irrisolti. Il problema focale del nostro secolo è chiaramente quello dell’immigrazione ed è tale tanto per noi che per gli stessi migranti. Se ne parla quando non si hanno argomenti migliori sui quali disquisire, quando i numeri sono allarmanti, quando si ha il bisogno di scaricare la frustrazione sul capro espiatorio di turno.

Saper individuare il problema senza essere propositivi sulle risoluzioni o ipotizzandone di surreali è abitudine diffusa, forse è per questo che, a oggi, assistiamo impotenti alla crescita esponenziale delle vittime che questo fenomeno sta mietendo. Vittime che sono al tempo stesso artefici del loro destino. Artefici passivi, attori mossi dalle circostanze e dai trafficanti, non di certo dalla loro personale iniziativa. Estrema povertà, guerra, morte e distruzione sono i motivi per i quali si salpa dalle coste, libiche e non solo, su gommoni fatiscenti, consapevoli del fatto che giungere sani e salvi sull’altra sponda è solo una delle tante fini che si possono fare, la migliore delle tante ipotesi, ma il rischio lo si corre perché non si ha molto da perdere. Sfido chiunque a dire che in situazioni tanto estreme non verrebbe spinto dalla stessa voglia di fuga. Non ci si sveglia una bella mattina pensando di andare in gita in Europa, ma per anni si lavora cercando di racimolare un gruzzolo non indifferente e tutto non per portarselo oltre il Mediterraneo o potersi permettere la prima classe, ma semplicemente un viaggio su un gommone stipato e malridotto.  È un viaggio di fortuna: quella di riuscire a imbarcarsi, fortuna nell’arrivare a destinazione, fortuna nell’arrivarci vivi…ma tutta questa fortuna poi non credo appartenga loro né prima, né durante né tantomeno dopo il viaggio, qualora un “dopo” ci sia.

Quando si è costretti a scappare il margine di scelta è molto risicato, si è in cerca di salvezza, nient’altro ha importanza. A tutti quelli che credono che “i clandestini stiano invadendo l’Italia” e si chiedono perché non vadano in altri Stati, la mia risposta è prima di tutto geografica e, in secondo luogo, relativa alla tempistica. Geograficamente parlando l’Italia è il ponte verso l’Europa, primo approdo per i naufraghi e passaggio obbligato per i tanti che non si stanzieranno nelle nostre terre, ma sperano di riuscire a raggiungere il Nord Europa. A livello di tempistiche, invece, rispondo che evidentemente l’Italia non è provvista di tutte le misure necessarie per assorbire questi ingenti flussi migratori e per certo tali misure saranno da condividere con enti sovranazionali come l’Unione Europea e l’ONU, visto che di emergenza umanitaria si tratta, ma le cure e le strutture per accogliere e soccorrere le ondate di persone in balia del mare spettano in primis all’Italia. Non si può fingere di non capire che il problema non va aggirato, ma affrontato e che il primo passo è offrire assistenza e cure, che la priorità è salvare vite.

Molti italiani in America hanno avuto l’opportunità di rifarsi una vita. Oggi non si chiede solo il rimpatrio, ma si dice proprio che bisognerebbe fare in modo di bloccare le partenze. Ora, questo significherebbe dire loro di arrangiarsi e morire a casa loro piuttosto che venire a occupare i nostri spazi.

Non si pensa mai che spesso i problemi vadano risolti alla fonte, che se si cercasse di arginare e sedare i conflitti, risolvendo questa che è una questione mondiale, nessuno più sarebbe costretto a lasciare la propria terra natia. Non è un’utopia, ma qualcosa di raggiungibile con il tempo. Fino ad allora però non ci si può barricare dietro il disinteresse.

Si sta già facendo molto, ma non basta. Soli non ce la possiamo fare e abbiamo bisogno di organismi e enti sovranazionali. Queste sono certezze, dati di fatto e non vengono messi in discussione. Anche chi oggi finge di non vedere presto o tardi dovrà farsi avanti. Quello che penso sia intollerabile è credere che aiutare gli altri vada a nostro discapito. Poi certo, constato che nemmeno fra di noi la solidarietà è comune, perciò mi spiego con amarezza perché non si sia solidali con i tanto “temuti stranieri”. Si pensa che siano loro a rubarci il lavoro, quando invece provvedono solo a portare avanti quelli più denigranti che mai e poi mai un ragazzo italiano si “abbasserebbe a fare”. Basta che qualcuno provenga da un paese arabo e lo si etichetta come clandestino, questa è la grande ignoranza di cui si dà ampio sfoggio. Settant’anni fa qualcun altro discriminava i non ariani, non dimentichiamolo. Gli immigrati sono anche quelli provenienti da ogni altra parte del mondo, ma se dotati di portafoglio pieno allora non sono poi tanto “temuti stranieri”. Se il distinguo sono i documenti di cui i clandestini sono sprovvisti, allora perché non dotarli di nuovi? La mancanza di documento è simbolo del fatto che loro un’identità non ce l’hanno, sperano di potersela costruire, di riuscire a ripartire.

 Tra ieri e oggi ci si ostina a mettere tanti paletti, ma di differenze io ne vedo ben poche. Vedo uomini e donne, giovani e anziani, bambini esausti e spaventati, persone ammassate come fossero cose. Vedo smarrimento e insicurezza.

Trovo disdicevoli le insinuazioni riguardo al fatto che si dovrebbero adottare rimedi drastici contro i profughi, specie se da parte di ragazzi, proprio da parte di quelle nuove generazioni che dovrebbero sostenere gli aiuti umanitari. Ho visto esempi di alcuni giovani che offrono aiuto, ma molti di più sono gli esempi di quelli che pensano che in fondo i morti al largo siano un problema in meno all’interno delle nostre frontiere.

La disumanità sta nel ridursi quasi a non sentirsi più uomini perché sporchi, affamati, assetati, feriti, senza casa, senza famiglia, privati della dignità oppure nel rifiutarsi di vedere il bisogno negli occhi di chi è uomo come noi?

Ho iniziato facendo riferimento all’Expo e chiudo dicendo che confido nel fatto che se ne valorizzi la portata culturale. Spero che i tanti che visiteranno i padiglioni riusciranno ad andare oltre le valutazioni pro e contro l’organizzazione dell’evento e che faranno proprie alcune considerazioni. Culture diverse non sono sbagliate. Usanze che noi troviamo originali hanno significati precisi nei contesti originari. Voler avvicinarsi ad altre culture non va di pari passo con il voler rinnegare la propria, ma anzi mira a farle dialogare. Questo è il gradino che molti non riescono a superare, questa è la sfida del nostro secolo.

                                                                                                                                                                           Elisa

 

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