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                                                                                         L'ultimo giorno della farfalla d'acqua


Erano bastati quegli attimi interminabili a mettere un punto al fluire per virgole del suo passato; da lì in poi non sapeva come si sarebbe raccapezzata. Ricordava i discorsi fatti la mattina, il modo in cui i passanti le erano sembrati compagni prima, nemici poi e lei, incompresa sia prima che poi, si sentiva foglia in balia degli schiaffi del vento. Le foglie autunnali, che aveva sempre percepito come piume colorate, ora, invece, portavano i colori della sua vita tumefatta. Si era rialzata, barcollante come una fiammella sulla quale qualcuno ha appena soffiato senza riuscire nell’intento di spegnerla. Gli occhi di tante sconosciute la ignoravano, quelli di molti sconosciuti le ronzavano attorno maliziosamente. Si trovò a vagabondare vicino a casa senza nemmeno rendersene conto. La nebbia le offuscava la vista, il senso di ribrezzo le provocava crampi violenti. Si accasciò sul selciato odoroso di pioggia. Poggiò la mano e graffiò la superficie piatta dei sassolini. Deturpò quella perfezione troppo immobile per stare così vicina a lei che aveva la tempesta dentro.

Perse coscienza.

La sua libreria profumava di cultura, le culatte dei libri sfumavano dai pigmenti salmastri alle pennellate aride, lo scacciapensieri alla porta tintinnava dolcemente come la voce di un bambino che ti accoglie a braccia aperte. Appeso il “torno subito” alla maniglia e date due mandate alla serratura, si recò alla posta. Capodanno era alle porte. Quella sarebbe stata l’unica e l’ultima occasione di rispolverare legami arrugginiti prima di salutarli definitivamente. L’anno nuovo le avrebbe regalato una nuova vita; non si trattava dei soliti buoni propositi volubili, ma di certezze comprovate dalle valigie quasi ultimate e dal biglietto di sola andata per Lisbona. Un piccolo, intonso, variopinto pezzo di carta spessa che le avrebbe permesso di continuare a scrivere la sua vita altrove. Non voleva correre rischi, ma solo rincorrere il suo sogno di una vita a modo, in posti che avrebbe sempre voluto visitare, dando così una svolta alla vita ritirata che aveva sempre condotto. Estrasse dalla borsa una, due, tre lettere, controllò gli indirizzi, appose in alto a destra i francobolli necessari. Forlì, Civitavecchia, Trapani: le trame della sua famiglia erano andate diramandosi col tempo, disfacendo quella maglia tessuta dalla madre sino a quando, poi, era venuta a mancare. Assorta, le imbucò per poi affrettare il passo verso la libreria.

La sua attività non si sostentava di certo grazie ai proventi, nessuno mai si accalcava fuori dalla porta. Purtroppo, si ripeteva spesso, la cultura ha perso d’attrattiva, i libri sono impegnativi e richiedono introspezione, cosa che ben pochi oggi non temono. Quel giorno, invece, qualcuno la stava attendendo, seduto sul gradino ai piedi del portoncino segnato dal tempo. L’uomo di mezza età, brizzolato, distinto, le si presentò come un cronista in cerca di materiale. Era in procinto di stendere un articolo pregnante sulle sevizie troppo spesso subite dalle donne in quanto tali. Lo invitò a continuare la conversazione all’interno. Si sedettero al tavolino adibito alla “degustazione libri”, come le piaceva definirlo e lei gli offrì del tè tanto prontamente che l’uomo non poté esimersi dal berlo. Era animato da una passione tale che poté leggergli negli occhi l’adrenalina del reporter e questo non la lasciò del tutto indifferente, dovette ammetterlo. Egli lesse avidamente articoli rilegati in volumetti risalenti a qualche anno prima e riportanti casi di stupri, femminicidi, percosse da parte di conviventi, parenti o estranei: abusi d’ogni sorta. Acquistò infine due volumi di carattere psicologico prima di accomiatarsi dalla donna, la quale proseguì la giornata come suo solito, ma sempre con il tarlo di quel soggetto insolito di cui nemmeno sapeva il nome.

L’avrebbe scoperto l’indomani mattina.

Alzatasi di buon’ora aveva sorseggiato una calda tisana ai frutti rossi e, con essa, aveva ingerito di cattivo grado le notizie di cronaca nera, che il quotidiano rigurgitava già dalla prima pagina. Si concentrò sui firmatari delle colonnine: chissà che non si fosse appena immersa tra le righe dell’uomo misterioso! A metà mattina riscontrò il più alto afflusso di gente della settimana. Spesso ciò accadeva di sabato, ma, in particolare, proprio quel fine settimana era uscito il nuovo romanzo di una scrittrice che aveva già spopolato in America e molti accorrevano a comprarlo affinché altrettante persone l’avessero sotto l’albero. Impegnata tra le richieste, gli scontrini da battere, i pacchetti da decorare, non aveva badato alla distinta figura vestita di nero nell’angolo accanto alla porta. Di spalle, aveva sfiorato con le dita, affusolate e al tempo stesso dalle nocche nodose, le copertine con scritte in rilievo di alcuni gialli esposti all’entrata e si era azzardato ad avvicinarsi solo quando il più della clientela era già sfociato fuori, sulla stradina che il sabato mattina pullulava di gente. Tolse gli occhiali da sole e il cappello per farsi riconoscere dietro un consapevole e sfavillante sorriso da gentiluomo. Questa volta era tornato per delle biografie che la libraia recuperò a colpo sicuro, dicendo che si apprestava a scrivere quanto di più riuscito avesse mai messo a punto. Uscirono dal negozietto insieme, la pausa pranzo per lei era incominciata da un quarto d’ora abbondante, così, per farsi perdonare (o forse proprio cogliendo la palla al balzo) quel gentleman si offrì di scortare la dama in un locale a lui ben noto. La fragorosa risata di lei alle buffe movenze caricate di lui fu come dargli carta bianca. Durante il frugale pranzo, affascinata dall’acume che l’uomo ostentava con parsimonia, si lasciò tentare più volte dall’essere indiscreta, frenando poi la curiosità di fronte al muro d’impermeabile riservatezza che si trovava di fronte. Dopo aver pagato, l’uomo la riaccompagnò dicendole che presto si sarebbero rivisti.

Quella fu la volta del loro ultimo incontro.

Passò il Natale in solitudine come ormai era “acostumada” (abituata) a fare. Da qualche mese stava apprendendo piccoli rudimenti di lingua portoghese e di tanto in tanto inseriva paroline intruse anche mentre parlava a se stessa. La mattina del 27 dicembre, quando tutto il paese riprese vita dopo i giorni di festa, nella cassetta della posta trovò due lettere, in risposta a quelle che aveva spedito. Le due sorelle le avevano descritto vagamente la vita che stavano conducendo, terminando entrambe, come se si fossero accordate a riguardo, con gli Auguri e un “A presto” che, sapeva, avrebbe tardato ad arrivare tanto quanto quelli degli anni prima. La cosa che non si sarebbe mai aspettata, invece, fu la mancata risposta del padre, che non sopraggiunse nemmeno nei giorni a venire. Per distogliersi dai bui pensieri a riguardo, decise di tenere aperta la libreria fino alla sera del 30 dicembre, riservandosi solo l’ultimo dell’anno per ultimare il grosso delle valigie. Aveva sempre amato quel suo rifugio dal mondo. Sedendosi a sfogliare i libri aveva viaggiato in lungo e in largo dai posti inesplorati a quelli più rinomati, era scesa nei bassifondi sociali o entrata in circoli elitari, senza stancarsi mai, pagina dopo pagina, libro dopo libro, scaffale dopo scaffale. Forse anche in Portogallo avrebbe continuato una vita non troppo dissimile: in fondo voleva evadere da quel mondo che la soffocava perché aveva un sapore di stantio, sapore che nessun libro avrebbe mai saputo assumere se assaporato dalle sue “pupille gustative”, avide e mai sazie.

Era la sera del terzultimo giorno dell’anno, stava rincasando sola e al buio, stringendo a sé la borsetta con la paura che qualcuno gliela rubasse all’improvviso. Fu ben altro ciò di cui venne privata. Il basso tacco delle scarpe, raffinate seppur economiche, che indossava, scandiva i suoi passi sull’acciottolato di un viale secondario, per questo poco illuminato. All’improvviso qualcuno di alto e forte, cui non le riuscì di opporre resistenza, la sorprese alle spalle e la trascinò in un vicolo, facilitato dall’effetto che i vapori emanati dal fazzoletto imbevuto di cloroformio aveva avuto sulla donna una volta impressole sul volto.

Quando si riebbe un poco lo vide sopra di sé.

Lo sentì.

Troppo debole anche solo per fiatare, sentendosi passiva come non mai, svenne o quasi con l’immagine nella mente di quegli occhi infuocati e diabolici. Potevano essere passati interminabili minuti o brevissime ore, quando si risvegliò si limitò a coprirsi e poi pianse. Pianse come non mai, pianse lacrime che sapevano di ingiustizia e di malessere, ma anche di colpa. Colpa per aver scambiato per passione quella che era sempre stata perversione nello sguardo, per essere stata preda passiva caduta nella trappola di moine da gentiluomo. Quella mente terribile le aveva tolto la vita. Continuava a ripeterselo. Tolta la vita prima e durante quel momento, ma anche quella che avrebbe dovuto seguire. Aveva insudiciato i discorsi e le ore passate con la madre, l’unica vera depositaria di tutto l’amore che aveva provato in vita sua; aveva squarciato ogni pudore e sentimento mai provato prima e che mai dopo sarebbe stata in grado di provare. Non conosceva le cause per cui tutto apparisse macchiato ai suoi occhi, ma così era e nulla poteva farci.

Trasalì e ancora la pioggia picchiettava sulla ghiaia. L’unica cosa che le impediva di urlare era che quelle gocce d’acqua la stavano lavando, purissime scendevano dal cielo e le scivolavano addosso, portando con loro la vergogna, il disprezzo, i graffi che le segnavano l’anima. Questa volta si alzò determinata a non perdere di nuovo l’equilibrio. Non avrebbe saputo dire né dove si trovava né dove fosse diretta. Tutto le era alieno. Aveva gli estranei attorno, li aveva dentro. Con passi incerti arrivò a una ringhiera alla quale aggrapparsi e procedette sino a quando, ai piedi di dove si trovava, sentì l’ondulante ritmo dell’acqua. Doveva lavarsi, voleva farlo. Poco più a destra si faceva strada, giù per una lieve pendenza, una scaletta malandata i cui sassi a incastro non garantivano la tenuta che falsamente promettevano. Scese con cautela a passo debole, l’unico in grado di sostenere in quelle condizioni. D’un tratto: il mare. Per i frangenti che avevano preceduto il suo arrivo lì, quasi aveva rimosso di essere vissuta al molo sin dall’adolescenza. Si trascinò stancamente sino al bagnasciuga, fino a immergere completamente i piedi nell’acqua increspata e blu come la notte. Si spogliò degli abiti, abbandonandoli sulla sabbia pettinata della riva, per poi lasciarseli alle spalle. Immerse la sua pelle, resa ancora più lattiginosa dalla luce della luna, sino al bacino per detergersi più di quanto non avesse fatto la pioggia poco prima. Solo sulla scia di questi pensieri, che le pervenivano lentissimi, si rese conto del fatto che la pioggia non era ancora cessata. Come una bambina, aveva lasciato che una maggior quantità d’acqua, imponente ai suoi occhi, prendesse il sopravvento sopra le minute goccioline che si ostinavano a lottare, invano, contro la forza di gravità.

Sfregò, sfregò, sfregò e urlò. Tutte le grida, che aveva serbato dentro di sé a lungo, presero forma in uno sfogo disumano che l’aria salmastra inghiottì e lenì prima che potesse giungere a riva. Ricominciò a piangere lacrime che sulle labbra sapevano di sconfitta. La pioggia sopra di lei, il mare sotto, le lacrime che da lei stessa fuoriuscivano e il dolore che dentro la soffocava. Non aveva mai imparato a nuotare, forse per la paura che l’acqua le incuteva sin da bambina, ma quell’ipnosi sibillina la fece ricredere.

Un bagliore deciso fluttuava all’orizzonte, chissà a quale distanza. Chissà a quale distanza non sarebbe più stata padrona di se stessa, si sarebbe trovata in balia delle onde, di una profondità tale che le punte dei suoi piedi non avrebbero potuto scorgere la sabbia del fondale.

Si spinse oltre.

Con le braccia remava, o meglio scostava ali d’acqua attorno al suo gracile busto. Quella farfalla d’acqua che si dileguava verso il mare aperto, a riparo da occhi indiscreti, in oscuro silenzio, era libera di farlo in segreto rispetto al mondo che si era lasciata alle spalle. Il freddo non la indispettiva più, vi aveva fatto l’abitudine repentinamente, trovando risanante e rinvigorente quel liquido fresco. Lo stesso che ben presto le arrivò sopra la testa, le intrise i capelli.

I suoi progetti annaspavano e, come gravati di un peso insostenibile, abbandonavano la bislacca idea di poter restare a galla. Libera di volare, lasciò che l’acqua salina le solleticasse il palato e, finalmente, si librò leggera nell’aria buia di quella notte rarefatta dalla rugiada argentea della luna.

 

 


Elisa

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