top of page

La felpa grigia

​

L’aria salmastra le spettinava i capelli con la pacata ritmicità delle onde del mare all’alba. Si era alzata presto quella mattina ed era corsa al mare per liberarsi da tutti quei pensieri che la soffocavano ormai da giorni come un mulinello che cerca di portarti sul fondo. Sentirsi completamente avvolta da quel liquido limpido e fresco, nella solitudine, osservando l’alzarsi del sole all’orizzonte, era stata per lei come una sorta di catarsi, una purificazione che per quei momenti, che le erano sembrati interminabili, le aveva fatto sfiorare quella libertà tanto desiderata. Seduta in un angolo in cui la roccia si confondeva con la spiaggia, le ginocchia contro il mento, sentiva la sabbia morbida sotto i piedi, la sentiva leggera fra le dita…il sapore di sale sulle labbra.

Si sarebbe rialzata anche stavolta. Avrebbe combattuto con tutte le sue forze contro quel destino spietato che le aveva tolto una delle persone che di più care aveva al mondo. Non l’avrebbe fatto tanto per lei quanto per lui in primo luogo, quel nonno che non si era limitato a vederla crescere, ma le aveva insegnato a vivere, a saper affrontare la vita, ad essere in grado di accettare tanto i successi quanto le sconfitte, le perdite. Grazie a lui poteva dirsi una persona migliore, non perché il sue nome avesse ricevuto onoreficenze, ma perché i veri eroi sono coloro che lasciano le orme indelebili del proprio passaggio nella vita degli altri con umiltà, senza che magari lo sappiano in molti, senza che loro stessi ne siano a conoscenza. Come uno dei tanti Giobbe dei nostri tempi si era visto portar via la padronanza di sé dalla malattia, ma al contrario di Giobbe gli era sempre rimasto un solido appiglio per risollevarsi, andare avanti: l’amore dei famigliari. Si sarebbe sollevata dal buio in cui era sprofondata dopo che le era stato strappato un pezzo di cuore, avrebbe dimostrato al mondo intero che certi sorrisi niente e nessuno è in grado di spegnerli: lui avrebbe continuato a vivere dentro di lei, attraverso di lei.

Una volta tornata a casa si fece una lunga e distensiva doccia calda e, uscita, si guardò allo specchio. I suoi occhi castani e penetranti erano universi imperscrutabili, scrigni che racchiudevano una personalità dalle mille sfaccettature. Le sue labbra carnose color delle rose erano morbide. Quando sorrideva le fossette sulle sue guance lasciavano trasparire la sua innocenza. Innocente era il suo modo di vedere le cose, che non era intaccato da malizia, o da qualsiasi altro morbo infici il modo di pensare maggiormente diffuso nella società. Questo non implicava il fatto che si lasciasse ingannare da tutto ciò che le veniva detto. Era sempre pronta a socializzare, pur mantenendo ben salde le distanze fra gli altri e il suo più vero io, la sua essenza più profonda, i suoi affetti più cari. Aveva imparato a sue spese che prima di aprirsi alle persone era bene verificare quali fossero le intenzioni di chi si trovava di fronte.

Era da sempre innamorata dell’Amore, di quello con la “A” maiuscola. Quello che c’era di più stupefacente era che aveva avuto l’enorme grazia di poterlo vivere sulla propria pelle. Quella dei suoi genitori era molto più che una favola, era una storia vera, concreta, reale e con questa descrizione non può nemmeno stridere l’aggettivo sublime. Era qualcosa di difficilmente riscontrabile: un Amore perfetto, in quanto le imperfezioni dell’uno venivano colmate dall’altra e viceversa. Come in un puzzle in cui le tessere sono attimi irripetibili di noi, sfuggenti, ma indispensabili per mostrarci a noi e agli altri, per  togliere quella maschera che senza accorgerci, per difesa, spesso siamo costretti a indossare, e tentare di trovare la tesserina mancante, lasciarci completare. Crescendo aveva imparato a giocare d’azzardo con la vita. Non che le piacesse farlo, ma la vita spesso e volentieri non ti dà alternative. La vita è il croupier più esperto che possiamo trovarci davanti, non esistono regole, non esiste tecnica, nemmeno furbizia che reggano: sei solo un soffione in balia del vento; presto o tardi di te non rimarrà altro che lo stelo, ciò che è riuscito a resistere al tempo, al dolore, alla sofferenza. Ci sono momenti nei quali vorresti immergerti in inchiostro nero, perdere d’identità ,senti di toccare il fondo, tutto perde di significato, vuoi perderlo anche tu e trasformarti in un punto sulla pagina della tua vita.

 La sua mente inseguiva l’evasione. Ne aveva assoluto bisogno. Si ricordò allora di un episodio accaduto solo un mese prima: per lei un’eternità, un abisso, la separava da quei giorni.

 Era una calda giornata di aprile, quel giorno si sarebbe tenuta un’esibizione del corpo bandistico del paese di cui faceva parte anche sua sorella. Non appena si fu seduta, macchina fotografica alla mano, notò che il flusso di gente in arrivo sembrava interminabile, e con essa anche la confusione che si veniva a creare. Guardandosi intorno si accorse che anche qualcun’altro stava facendo la stessa cosa. Un ragazzo con una felpa grigia. Fu un attimo, i due si voltarono involontariamente verso lo stesso lato. Ci fu un repentino scambio di sguardi. Dopo di che la musica cominciò. Il vociare chiassoso della gente si spense all’unisono; non la abbandonarono, invece, gli sguardi a intermittenza di lui. Si sentiva osservata, ma con dolcezza, non con insistenza. Ogni tanto, nonostante lo negasse anche a se stessa, anche il suo sguardo si spostava dal volteggiare delle dita della sorella che danzavano lungo il corpo del flauto traverso a quel ragazzo misterioso. Gli applausi finali l’avevano riportata alla realtà. Tutti si erano alzati in un’ovazione generale per poi tornare a costituire quella folla chiassosa di un’ora prima.

Dopo quel giorno tutto era tornato alla normalità, ma quel ricordo che adesso le riaffiorava alla mente le dipinse sulle labbra l’ombra di un sorriso. Portò a sviluppare i rullini di quel giorno. Quando si recò a ritirare gli scatti, una volta davanti al bancone, la porta del retrobottega si aprì e comparì il commesso: lui, il ragazzo dalla felpa grigia. “Belle foto! In una hai preso di striscio anche me!”, disse sorridendo. Il loro essere impacciati, era mal celato da un’accentuata gesticolazione da parte di lui e da sorrisi imbarazzati da parte di lei. Dimentichi delle foto, avevano incominciato a parlare di tutt’altro e, solo in seguito, quando lei si era voltata per lasciare il negozio si era accorta che il locale si era affollato notevolmente. All’uscita dal negozio in lei era rimasto molto di più che il semplice residuo di una piacevole chiacchierata di metà pomeriggio. Se ne tornò a casa e cominciò a passare in rassegna una ad una le foto. Le piaceva fare un tuffo nel passato, al momento dello scatto, ricordare le emozioni provate, i suoni uditi, i profumi respirati, le persone incontrate.

Poi la scuola finì ed ebbe inizio l’estate, un’estate meno allegra del solito. La fretta che i giorni avevano di trascorrere le faceva percepire un senso di inarrestabile scivolamento. Ciò che era cambiato rispetto ai primi tempi, però, era il fatto che era riuscita a risollevarsi: cercava di dedicarsi ad altro e ad altri, non per dimenticare, ma per tornare a sentirsi d’aiuto a qualcuno, a dare un senso alla propria vita. Una sera, sul finire di giugno, lei e la sua famiglia ebbero per ospiti a cena dei vicini di casa e così, tra una chiacchiera e l’altra, se ne uscirono parlando dell’imminente “Festa d’estate” che si sarebbe protratta per due settimane. Improvvisamente sentì gli sguardi di tutti rivolti verso di lei e la voce di sua madre dirle “ Ti farebbe bene, ti distoglieresti un po’ dai brutti pensieri…Perché non ti butti? Mal che vada ci avrai provato!” Buttarsi….aveva sempre fatto a pugni con questo verbo. Non le apparteneva per niente. Eppure qualcosa dentro di lei le fece cambiare repentinamente idea. Basta rifugiarsi dietro le proprie paure, il suo nuovo “ io” le urlava da dentro: avrebbe accettato la sfida contro se stessa.

 Lo spiazzo che si era scelto per allestire la festa era poco distante dal centro del paese. Il capannone contiguo alla zona adibita a cucina riusciva a contenere un centinaio di tavoli. Di fronte al capannone, in lontananza, era collocato un palchetto rialzato sul quale erano stati preparati strumenti e microfoni e ai cui piedi si trovava una piattaforma adibita al ballo. Tra lei che osservava e la pista da ballo vi era un corridoio pavimentato da erbetta fine e ben curata ricoperto da un pergolato, rivestito di fiori colorati intrecciati in una psichedelica commistione di colori. Ai due lati del pergolato vi erano sei gazebi: quello dell’esposizione di libri, due di associazioni umanitarie , altri due che esponevano le divertenti creazioni di un giovane fumettista e quelle raffinate di una ragazza che insieme alla madre era riuscita ad allestire la sua prima esposizione di bigiotteria creata con le loro stesse mani; infine vi era l’immancabile chiosco dei dolciumi. La peculiarità del gazebo dei libri era che al suo interno vi erano diverse sezioni, non solo divise per argomento, ma anche con una area riservata agli scrittori emergenti: pubblicazioni, talvolta anche brevi, di scrittori di tutte le età dei dintorni che avevano voluto provare a cimentarsi nella stesura di un piccolo elaborato giusto per il piacere della scrittura. Decise di acquistare una copia di uno dei manoscritti. Non badò alla copertina o al titolo, come del resto aveva sempre fatto; volle che a scegliere fosse la sorte, così prese l’ultimo volume in fondo alla pila: “Gli acquerelli della vita” , quello era il titolo.

Ciò che più l’aveva colpita era stato il fatto che si fosse cercato di motivare giovani (e non solo)  incentivandone la creatività: per una volta alle loro passioni non si era richiesto di restare accantonate in un angolino, ma, al contrario, di venire alla luce, mostrarsi in tutto il loro splendore, perché, è risaputo, le cose fatte con passione sono sempre quelle meglio riuscite.

Andò in cucina e indossò il grembiulino color fragola, che era uguale per tutti gli improvvisati camerieri. Anche da piccola ne indossava sempre uno personalizzato rosa confetto, quello che aveva imparato a chiamare “scusalì ” (in dialetto bergamasco) dal nonno e dal quale difficilmente si separava quando voleva “aiutare” a modo suo in casa.

 

Quella fu la prima di una serie di fantastiche serate per lei. Il clima tra chi, come lei, stava dietro le quinte era sereno e divertente: sembrava di appartenere tutti ad una grande famiglia.

 L’ultima sera, a metà serata, si ritrovò a dover portare un vassoio al “tavolo 28”, così c’era scritto. Assorta nei suoi pensieri e sorridente arrivò al tavolo, appoggiò i piatti delle varie portate, poi alzò lo sguardo per augurare buon appetito e vide seduto il ragazzo dalla felpa grigia. Portava una camicia estiva bianca, dai risvolti alzati, visto il calore di quella sera; la sua pelle abbronzata, color dell’ambra, faceva contrasto con quel candore, ma soprattutto dava gran risalto alle iridi scurissime dei suoi occhi e ai capelli color dell’ebano. Le sue labbra carnose, quando sorrideva, lasciavano intravedere i suoi denti bianchissimi. Portava una barba dai bordi ben definiti, corta, ben curata.

Terminata la cena, d’un tratto tutti sentirono un botto, si voltarono e, con in nasi all’insù, osservarono il primo colorato fuoco d’artificio librarsi nell’aria ed espandersi in dorate gocce di cielo. Lei si recò ai bordi della pista da ballo, da dove avrebbe avuto una visuale ottimale per poter vedere quei capolavori della pirotecnica. D’un tratto il ragazzo dalla felpa grigia le si avvicinò senza proferire parola. Con la coda dell’occhio lei sbirciava di sottecchi il ragazzo che le stava accanto. Vedeva il suo volto illuminarsi di volta in volta in un arcobaleno di luci. Terminati i fuochi la folla di astanti si disperse, il rumore ricominciò. Il ragazzo disse che era stato un vero spettacolo, lei ne condivise il pensiero. Finalmente arrivò il fumettista ad interrompere l’imbarazzante silenzio che seguì. Porse loro uno dei suoi fogli autografati: li aveva ritratti l’uno accanto all’altra, i nasi all’insù: sui volti un arcobaleno di luci. Lei pensò che quella era la seconda volta che un’immagine immortalava un loro incontro. Preso il disegno e complimentatasi con il fumettista disse che si era fatto tardi, augurò la buona notte ai due e fece per andarsene. Fu solo lì che il ragazzo si fece coraggio e le chiese se il giorno successivo si sarebbero potuti incontrare per parlare un po’. Si scambiarono i numeri di telefono in modo tale che la mattina seguente poterono prendere accordi per il pomeriggio.

Per rompere il ghiaccio fu lei stessa a cominciare un discorso qualunque: disse che negli ultimi giorni aveva letto un manoscritto davvero ben fatto. Raccontò che parlava di un ragazzo la cui passione nella vita era dipingere: poter esprimere attraverso le immagini ciò che provava o che voleva trasmettere e rimediare così alla timidezza che spesso lo frenava. Non utilizzava tempere. Pensava che gli acquerelli rappresentassero meglio la vita. Tirò fuori un cartiglio dalla borsa e gli lesse alcuni passi significativi che si era segnata: “Le tempere si mischiano, gli acquerelli lasciano delle velature di colore sino a formare nuove sfumature…La vita è così: gli avvenimenti che la caratterizzano vanno ad influire sull’esperienza personale di ognuno, ne ri…” a quel punto lui concluse la citazione: “rivelano sfumature sempre nuove…Nell’intersecarsi quotidiano di più esperienze personali lasciamo  che velature di noi restino negli altri e vice versa”. Lei, stupita, gli chiese come facesse a conoscere le frasi di un manoscritto di cui esistevano solo due copie: la sua, e quella dell’autore…Si era appena risposta da sé.

Si erano incontrati ai piedi di una  collinetta che si trovava a metà strada fra le loro abitazioni. Il tramonto rosso e oro creava una  tavolozza che si estendeva lungo tutto l’orizzonte e oltre, il cui pennello tingeva di quei colori purpurei e sgargianti le pendici della collina sulla quale si trovavano e il paese ai suoi piedi. Le punte degli steli d’erba rigogliosi parevano prendere la forma di pepite dorate la cui estensione sul prato si allargava a macchia d’olio man mano che il sole si abbassava. Una staccionata di pochi metri si estendeva sulla sommità della collinetta, pareva che la sua funzione fosse assimilabile a quella delle meridiane: stendere pennellate ombrose sul selciato, più o meno lunghe in base alla posizione del sole. Lei lasciò che lui le prendesse la mano e si voltò verso l’orizzonte appoggiandosi alla staccionata, come se si stesse affacciando per la prima volta alla visione del tramonto. Mai prima d’allora i pigmenti che si erano mescolati nella sua retina si erano poi tradotti in un turbinio di emozioni che andavano dritte al cuore. Con tutta probabilità quella sera il tramonto non ne era l’unico responsabile…

 

 

 

 

Elisa

bottom of page